JAZZ
Vi ho parlato del Blues, per cui non posso non parlarvi del Jazz. Per molto tempo questa parolina viene pronunciata e scritta “jass” derivando forse dal verbo francese “jaser” che vuol dire “chiacchierare, fare rumore” e nella lingua francofona del ‘700 vuol dire perfino “copulare”. Nei giornali dei primi del ‘900 questa musica viene definita “fracasso, rumore sgradevole”.
Il jazz, animato da ritmo ed improvvisazione, nasce all’inizio del ‘900 da un mix magnifico di musica bandistica, spiritual e blues. Il jazz è colto, odora di carta da spartiti. I jazzisti conoscono la musica classica, la teoria e la tecnica: senza le basi non sarebbero stati possibili le progressioni armoniche complesse, la poliritmia (l’uso simultaneo di ritmi diversi) e l’improvvisazione.
Personalmente amo i primi artisti Jazz e qualcuno della Fusion, ma non vado matta per i tecnicismi estremi. A me piace sentire l’anima, il sentimento, la sbavatura, la grinta. Voglio percepire il sudore di chi suona. Non che i jazzisti non sudino, eh. Alle volte il jazz degli ultimi tempi mi sembra algido, distaccato, freddo, come se fosse un genere per pochi. Puzza di snob. Per non parlare dell’improvvisazione: il mio corpo deve prepararsi ai crescendo, ai ritornelli, agli assoli. Ho bisogno di prevedere, di avere la situazione sotto controllo. Ho necessità di avere la pelle d’oca, di sentire il brivido lungo la schiena, ma con l’estrema improvvisazione ed i repentini cambi, tutto ciò non avviene nel mio corpo. Nel blog scriverò altri articoli a proposito del Jazz, perchè nel corso dei decenni muta, si trasforma e sarebbe un vero peccato non parlarvi del Bebop, dell’Hard Bop e della Fusion.
NEW ORLEANS-DIXIELAND JAZZ
Il jazz risente dell’influenza dei cotton field hollers, ovvero dei canti eseguiti dagli schiavi delle piantagioni, articolati in calls (richiami) e cries (le grida) che trasudano dolore. Dall’intonazione del solista dipendono le improvvisazioni degli altri schiavi che rispondono, in controcanto, con frasi brevi.
Le work songs dalle quali derivano i bluesacci, invece, sono più strutturati.
Dunque il jazz nasce già da canti improvvisati, dagli Spirituals, dai Gospel e dal ragtime( forma strumentale ritmica di origine afroamericana, ma con influssi melodici riconducibili alla cultura europea).
Il primo disco jazz viene inciso nel 1917 dalla Original Dixieland Jazz Band, composta da soli bianchi e diretta dal cornettista Nick La Rocca (ebbene si, di origini italiane). Torniamo alle origini del nome Jazz: la Victor Records che produce il primo disco di The Original Dixieland Jass Band (lato A “One-Step” e lato B “Livery Stable Blues”) stampa dei volantini per fare pubblicità al disco. Vengono appesi,incollati e scotch-ati ovunque (marketing senza fronzoli) e quei burloni dei passanti cancellano la J, lasciando “ass”, ossia “culo”. Che Gianburrasca! A quel punto la Victor Records mantiene la J, ma sostituisce le S con le Z! Quindi… Meno chiappe per tutti!
Nel 1917, il Comando della Marina Militare fa sgomberare il Red Light District di New Orleans, lo Storyville, il quartiere illuminato dalle lucciole. Addio vita notturna, addio balli e divertimento. Si verifica una migrazione di massa verso Nord. Chicago diventa un crocevia (crossroad, per l’appunto) tra Nord e Sud degli USA. Gli afroamericani talentuosi,ma torchiati dalla brutta vita del Sud, decidono di stanziarsi nella capitale dell’Illinois perchè qui, oh si, la paga non è niente male e ci sono i gestori dei locali che fremono per far suonare dal vivo.
Dunque dunque: nella Windy City Chicago i musicisti arrivano trasportati dal vento come stormi di uccelli: Joseph King Olivier , Leon Bix Beiderbecke, Frank Trumbaueur(il primo sassofonista conosciuto) e Pee Wee Russell. Armstrong viene chiamato da King Oliver che ne intuisce il talento e lo inserisce nella sua Creole Jazz band. Dopo un po’ di gavetta da vita agli Hot Five che poi diventano Hot Seven.
LOUIS ARMSTRONG
Louis nasce, cresce ed inizia a suonare a New Orleans, sita nello Stato discretamente razzista della Louisiana. Conosce e condivide parte della sua vita con outsiders veri come prostitute, ladri e gangsta. Il buon giovane Louis ai cabaret ed ai locali notturni del Red Light District preferisce la Chiesa protestante con i suoi cori catartici. Figlio di genitori separati, va a vivere con la mamma fino a quando viene chiuso in riformatorio per aver sparato qualche pistolettata in aria, rubando l’arma al patrigno. Non tutto il male vien per nuocere: proprio qui Louis conosce la Cornetta (Mondialcasa ti aspetta) e la Tromba. Quando esce dal riformatorio inizia la carriera da musicista partendo dai bassifondi, fino ad arrivare a Chicago, poi alle sale d’incisione newyorkesi, al successo planetario ed ai tour a zonzo per il globo.
Durante una delle prime tournée lui e la sua band noleggiano un pullman, ma al suo arrivo l’autista li fissa perplesso: sono troppo neri e troppo trasandati. Di bossa l’autista chiama la polizia che interviene arrestandoli per disturbo della pubblica quiete (?). Chiusi in cella uno dei musicisti tira fuori dal taschino una cannetta dicendo a Louis: “Capo, penso di avere qualcosa che potrebbe causarci dei problemi” e gli mostrò il siluro. Il frontma, in tutta risposta gli da una pacca sulla spalla, tira fuori un accendino e dice: “Guarda, figliolo, mi sembra che l’unica soluzione sia distruggere le prove”.
SE-RA-TO-NA.
Inutile dire che la canzone più famosa di Louis sia “What a wonderful world”, scritta in un periodo costellato di tensioni politiche: l’assassinio di M.L. King che contribuisce a ulteriori rivolte, le lotte per i diritti civili, la guerra in Vietnam. Questo brano ci invita a riflettere sulla vita: troppo breve per non godersi tutto ciò che ci offre. Ci ricorda che il mondo è stupendo…nonostante tutto e nonostante gli esseri umani che lo popolano.
Ascoltate il primo,imperdibile,inarrivabile ed inconfondibile Louis: il Re della tromba!
Passano gli anni e Louis interpreta “We have all the time in the world” per il film “Al servizio segreto di sua Maestà” con l’agente 007 interpretato da Lazenby (che stento a ricordare) al posto dell’icona Sean Connery. Louis rischia di essere spodestato dalle star dell’epoca come Nancy Sinatra, ma nonostante le condizioni di salute precarie, non si perde d’animo e dice di essere la persona giusta per interpretare il brano che invita ad apprezzare le sfumature e gli aspetti più belli della vita. Anche se “aveva tutto il tempo del mondo” per farlo, lui, di quel tempo, forse non ne aveva così tanto.
(So che non c’entra un cavolino di Bruxelles, ma se vi piacciono le avventure di James Bond, non potete non amare Shirley Bassey e i suoi capolavori come “Goldfinger” e “Diamonds are forever”).
Louis sentendosi responsabile, si impegna in maniera ossessiva per la buona riuscita del pezzo (e per paura di dimenticarne alcune parti): ne viene fuori un capolavoro, ma a causa del flop del film, viene trascinato nel dimenticatoio. La voce di Louis è come uno strato di burro sul pane, è emozione pura e dolcezza. Amo questa canzone perchè è una delle ultime impronte che Armstrong ha lasciato sul nostro pianeta. La vedo un po’ come un testamento con un forte messaggio di speranza. Penso all’artista provato da problemi di salute legati alla vecchiaia ed a quel Barry che, proponendogli di interpretare un brano, gli dona nuova linfa: immagino Louis che sgrana gli occhi inumiditi e carichi di vita.
Nel 1994 “We have all the time in the world” diventa la colonna sonora di un famoso spot e scala, con corde, moschettoni e piccozze le classifiche mondiali. Louis muore nel ’71, ma nel ’94 riprende un po’ di quel tempo che il mondo gli ha strappato via.
QUANDO SATCHMO INCONTRA ELLA
Ella Jane Fitzgerald nasce in Virginia nel 1917. A quattordici anni rimane orfana e viene rimbalzata tra vari orfanotrofi. A 17 anni partecipa all’antenato di X-Factor: l’ ” Amateur Nights” che consiste in una competizione tra artisti suddivisa in varie serate. Ella deve ballare, ma l’ansia la attanaglia e le si immobilizzano le gambe. Panico puro. Sale ugualmente sul palco e canta dando libero sfogo alle sue 3 ottave e passa di estensione vocale ed alla tecnica scat (molto amata anche da Lucio Dalla). Nell’epoca della segregazione razziale, Ella nasce pure donna: una combo micidiale se si vuole ottenere il successo. Lei riesce lo stesso a volare alto. Diventa amica di Marylin Monroe, la quale riesce persino a farla cantare al “Mocambo” dove l’ingresso era vietatissimo ai neri, inclusi gli artisti.
Nel 1956 la focaccia incontra il pesto, le patate si mischiano ai wurstel, la pasta viene avvolta dalla salsa di pomodoro, la Nutella si spalma sul pane, Ella incontra Louis ed esce fuori «Ella And Louis». Nel 1957 si fa doppietta con «Ella And Louis Again» e poi arriviamo alla tripletta con «Porgy And Bess». Senti separatamente le loro voci e dici: che cacchio, non hanno nulla da spartire, una delicatissima, limpida, chiara e tecnica, mentre l’altra è grezza, ruvida, potente. Ebbene, ciò che ne esce fuori è una complementarietà unica. Ella ha una dizione cristallina, l’intonazione è impeccabile e i cambi di registro vocale sono fluidi e naturali. Ora sedetevi, prendetevi 5 minuti e ascoltate questo capolavoro.
SSSSSSSSSSSH! Silenzio in sala.
“ Alcuni ragazzi in Italia mi chiamano Mamma Jazz. Questo mi fa molto piacere. Almeno, finché non mi chiameranno Nonna Jazz”.
Unicamente Ella Fitzgerald. Nonna, Bisnonna, Zia, Mamma, Regina o Principessa che sia.
BILLIE HOLIDAY, LADY DAY
Billie viene cresciuta dai nonni materni e da una severissima cugina della madre. Ha la carnagione mulatta e viene discriminata sia dai neri che dai bianchi. A 11 anni viene stuprata da un viso pallido, ma al posto di essere creduta, le viene data della bugiarda e della adescatrice e fila in riformatorio. Quando esce torna a vivere per un breve periodo con la cugina della madre, ma poi decide di scappare per raggiungere la mamma a New York, dove si prostituisce in un bordello clandestino di Harlem in cambio di qualche spicciolo e di qualche ascolto di Bessie Smith e Louis Armstrong sul fonografo.
Il casino viene scoperto e Billie va nuovamente in riformatorio. Esce e cerca di fare carriera come ballerina. Diciamo che la danza non è nelle sue corde, ma senz’altro le sue corde vocali rendono di più. Tutti rimangono attoniti nel sentirla cantare. A 15 anni si esibisce nei locali, ma le mance non vuole riceverle nelle camicette o tra le cosce: da qui l’appellativo “Lady”. Nel ’33, quando ha 18 anni viene notata al cognato di nientepopodimenoche Benny Goodman, il quale la assume subito come cantante nella sua orchestra.
Successivamente lavora con Count Basie, Artie Shaw e Lester Young. Quest’ultimo diventa il suo best friend forever BFF e fu proprio lui a creare il nomignolo “Lady Day”. Lady Day è colei che sale sul palco indossando sempre una gardenia bianca; bianca come i visi dei suoi musicisti, mentre lei è mulatta ed è costretta a rimanere in camerino fino al momento di salire sul palco. Il pubblico che si riempie immeritatamente le orecchie della sua voce, le dedicano fischi e insulti gridati. Il batterista in un’intervista dice: «Nei locali che accettavano di servirla, ordinava sempre un hamburger in più, e lo riponeva nella borsetta. Perché non sapeva quando avrebbe potuto mangiare di nuovo. E quando i colleghi, la sera, rientravano in hotel, lei non aveva dove dormire». Aggiunge inoltre che, essendo nera, durante i lunghi tragitti delle tournèe non le era permesso utilizzare le toilette.
Nel 1939 canta al Cafè Society un brano di Lewis Allen contro il linciaggio e l’ingiustizia, ossia “Strange Fruit“. Uno “strano frutto” prodotto dagli alberi del Sud che hanno foglie e radici intrise di sangue. Corpi neri che oscillano nella brezza del Sud. Strani frutti appesi ai pioppi. L’odore di carne bruciata (dal KuKluxKlan presumibilmente) in contrasto al profumo di magnolie.
«Southern trees bear a strange fruit
Blood on the leaves and blood at the root
Black body swinging in the Southern breeze
Strange fruit hanging from the poplar trees…»
«Gli alberi del sud hanno un frutto strano, sangue sulle foglie, sangue nelle radici, un corpo nero penzola nella brezza del sud, un frutto strano che pende dai pioppi…» |
Billie Holiday la canta in quella serata. Peccato che sia presente il capo razzistissimo della narcotici, il quale decide di farla pedinare per coglierla con le mani nella marmellata (marijuana e eroina). Lady Day fa di nuovo una capatina in carcere. Nel 1959 viene trovata a terra nel suo appartamento, con in corpo una buona dose di droga. Ricoverata in ospedale viene sorvegliata dalla polizia su ordine del capo della narcotici che 20 anni prima l’ha punita per aver cantato “Strange Fruit”. Non finisce qui: il capo della narcotici emana l’ordine di interrompere la somministrazione di metadone per scongiurare l’effetto dell’astinenza. Le condizioni di Lady Day inevitabilmente peggiorano. Vengono proibite le visite e viene ammanettata al letto. Dopo pochi giorni muore.
Quando ascolto Billie Holiday devo essere in pace con me stessa, perchè inevitabilmente entro in contatto con la sua anima tormentata, provo empatia e percepisco dalla sua voce il tormento di una vita amara, di eccessi, di vizi che diventano schiavitù, di sofferenza. Poi immagino il suo volto dagli occhi malinconici, mentre i miei si riempiono di lacrime.
Che schifo il razzismo.
NINA SIMONE
Profonda, contraddittoria, intensa, arrabbiata, emotiva e capace di parlare delle proprie ferite e delle proprie (poche) gioie. La mitica Eunice Kathleen Waymon nasce nel North Carolina nel 1933 “sotto il segno dei Pesci” (cit. Antonellone Venditti). Fin da piccola canta in chiesa con le sorelle (si fanno chiamare “Waymon Sisters”), dopodichè, grazie ad una super colletta di dollari organizzata dalla comunità nera locale, riesce a frequentare delle lezioni di pianoforte presso la scuola Juilliard di New York. Si tratta di una fondazione che permette a giovani di talento di poter proseguire e intraprendere gli studi musicali. Scelgono lei, perchè la sua grandezza viene notata e riconosciuta pure dai suoi vicini di casa. Studia e suona in solitudine, lontana dai coetanei. Lei parla con le note.
«Quando gli altri bambini giocavano mi chiedevano sempre di suonare il pianoforte per farli ballare»
A 21 però la sua formazione subisce un arresto perchè le viene rifiutata una borsa di studio. Siccome ha bisogno di soldini comincia a lavorare come pianista presso un bar di Atlantic City. Purtroppo non riesce a coronare il suo sogno di suonare musica classica (per cui si prediligono musicisti bianchi), bensì blues e jazz. Decide allora di ispirarsi al suo modello Billie Holiday. Nel 1958 esce “My baby just cares for me” e da lì, la sua voce baritonale raggiunge le case di mezza America. Negli anni ’60 sostiene gli amici Malcolm X e Martin Luther King per la difesa dei diritti civili, diventando ufficialmente la voce politica del jazz, in grado di smuovere le coscienze di un’America arretrata.
Nel documentario “What Happened, Miss Simone?” il chitarrista Shackman dice: «Mi ricordo quella volta in cui si avvicinò a King in persona e gli disse, “Io non sono contro la violenza” e lui le risponde «non c’è problema sorella. Non devi esserlo».
Il 15 Settembre 1963, alle 10 del mattino, inizia la cerimonia festiva nella Chiesa Battista della Sedicesima strada di Birmingham, una città nel profondo Sud dell’Alabama, scenario di proteste dei neri che vogliono vedere riconosciuti i propri diritti di esseri umani. Dall’altra parte ci sono i poliziotti che reprimono le manifestazioni con violenza e i suprematisti bianchi che si strutturano in KKK. La Chiesa Battista è luogo d’incontro dei leader per la tutela dei diritti civili. Durante il rito festivo di quel 15 Settembre esplode una bomba. Perdono la vita 4 bambine. Birmingham diventa “Bombingham”. In questo clima politico, Nina scrive “Mississipi Goddam” come forma di protesta. Le radio la censurano e rimandano al mittente i vinili spaccati in due.
Viene persino costretta a lasciare gli USA. Mentre prepara il suo trolley da viaggio dove cerca di mettere “cose” di una vita, decide di accusare CIA ed FBI di non essersi mai realmente impegnati nel risolvere il problemino del razzismo.
Nina ha sempre avuto al suo fianco uomini pericolosi e violenti. Sempre nel documentario“What Happened, Miss Simone?” si sente la voce di Nina narrare al chitarrista di quella volta in cui il marito, cogliendo la moglie in flagrante mentre cerca di nascondere un messaggio ricevuto da un fan, l’ha picchiata brutalmente per tutta la casa, prima di metterle una pistola in bocca e stuprarla. Nina, donna complicata e tormentata, la stessa che nel 1988 al termine di una conferenza ha scagliato un coltello a casaccio e che nel 1996 ha sparato dei colpi di fucile in aria per spaventare due ragazzini troppo rumorosi che giocavano nella casa affianco. Nina Simone, una leggenda che con i suoi atteggiamenti spesso sgarbati cerca di allontanare il pubblico…e che invece continua a venerarla.
Non potendo tornare in madrepatria, si muove tra Barbados, Egitto, Liberia, Svizzera e Paesi Bassi. Si perdono le sue tracce per anni, soffre di disturbo bipolare con acuti episodi depressivi. La sua voce diventa ormai un eco lontano fino al 1978, quando esce l’album “Baltimore”. Album per i tanti, per i palati meno fini e meno esigenti. Nina litiga ardentemente con il produttore, il quale la obbliga ad attenersi ad una linea di sonorità più pop e commerciali. La mitica entra scazzata in studio e registra l’album in un’unica sessione di un’ora.
Se dovessi parlare del suo brano che preferisco, citerei sicuramente “Sinnerman”. Si parla di un peccatore che corre a perdifiato in preda ad uno stato delirante. Fugge dal destino, dal Giorno del Giudizio e verso un luogo sconosciuto dove poter trovare rifugio. L’uomo ha peccato, non si pente e l’unica sua priorità è quella di darsela a gambe levate. Dietro l’angolo c’è il Diavolo che lo aspetta offrendogli un porto sicuro. L’uomo non si fida e compie falcate sempre più corte. Inizia a pregare, ad invocare perdono e a chiedere pietà, ma ormai è troppo tardi per pentirsi, zio! Dovevi pensarci prima! Non c’è salvezza per chi ha peccato.
Corre, le gambe fanno “giacomogiacomo”. L’angoscia sale. Si sente puzza di morte imminente, ma al tempo stesso un fiato di voglia di vivere.
Quando ascolti il brano,vuoi che questi sacrosanti dieci minuti non finissero mai, perchè ti piace aggrapparti alla speranza, ma al tempo stesso vuoi porre fine alla sofferenza, al panico che cresce. Senti il sudore che gocciola sulla fronte del peccatore che corre, sempre di più, verso la signora con la falce ed il mantello nero.
Nina Simone suona “Sinnerman”a circa 128 bpm al minuto e sembra avere fretta, pure lei, di scappare dal Giorno del Giudizio.
Grande SouLady!