STAX RECORDS
Memphis. Da una costola falsa della Atlantic nasce la Stax Records che shakera country e r&b. Il sound genuino e basilare senza fronzoli della Stax è ben rappresentato dal masterpiece “Sweet Soul Music” (1967) di Arthur Conley. Dopo un tripudio di fiati Arthur comincia a cantare, pronunciando: “DO YOU LIKE GOOD MUSIC? ” . Dopo il coro di consenso (“YEAH!”) si parte: questa canzone va avanti come un Frecciabianca, sax e trombe saltano in carrozza al volo, mentre la batteria percorre incessante le rotaie.
Dai ragazzi, ora cliccate su “Play” e fate partire la mia playlist di Spotify che ho messo qua sopra, così sapete di cosa vi parlo.
La Stax nasce povera ma ben strutturata con autori della caratura di Isaac Hayes e con turnisti da favola come i Mar-Keys e gli MG’s (ricordate il riff incredibile di “Green Onions”? Ecco, sappiate che é farina del loro sacco di note), il tutto abbellito da qualche voce da brivido come quelle di Wilson Pickett, Eddie Floyd e di Otis Redding. Tre a caso, proprio. Tranquilli, torneremo su di loro.
Torniamo sui musicisti: la formazione dei Mar-Keys è composta da due trombe, due sax e una sezione ritmica (che poi si distaccherà e creerà la band Booker T & the MG’s) con organo, chitarra, basso e batteria.
I Mar-keys danno vita ad un successo: “Last Night” (1961) ; quando la ascolto percepisco la fluidità dei suoni nell’avanzamento del brano e nella mia mente si rincorrono immagini di persone che infuocano il dancefloor, facendo letteralmente scivolare i piedi sul pavimento, come se stessero pattinando.
Poi ci sono i sovracitati Booker T (organista) & the MG’S che danno alla luce un capolavoro grezzo che arriva fin sotto l’epidermide: “Green Onion”. Non voglio pensare che qualcuno di voi non l’abbia mai ascoltata, anche perché sovente si ritrova nella colonna sonora di qualche film. Quando la ascoltate vedete davvero i sorci verdi, ma che dico: le cipolle verdi! Un riff che si tramanderà nei secoli dei secoli amen. Spero.
Rufus Thomas e sua figlia Carla incidono a tutto spiano: la Carlita era considerata la regina del Soul prima che venisse spodestata da una sederata di Aretha. Carla ha una voce pulita, candida e i suoi brani sono leggeri e graziosi . A me piace molto “B-A-B-Y” perché profuma di amore adolescenziale, di farfalle nello stomaco, di ormoni che fanno salire la temperatura corporea e di voglia di chiamare il proprio galante”BIII EEEI BIII UAAAI BEIBI”.
Hayes inizia a produrre i brani di due ganzi veri: Sam & Dave. Celebre la loro “Soul man” che raggiunge il successo planetario con l’interpretazione dei Fratelli Blues. Questi due ometti sono grinta vera, hanno voci che si rispondono a colpi di ruggiti, fondendosi insieme in un tripudio di groove.
SAM & DAVE
Ed ecco a voi un duo vocale Soul al tritolo: lo scoppiettante tenore Sam Moore e l’esplosivo baritono Dave Prater. Soprannominati, appunto, “Double Dynamite”, questi due fenomeni re-introducono i “call-and-response” Gospel, i botta e risposta tra voce solista e i cori. Sam canta qualcosa, Dave risponde e viceversa. Un dialogo nel qual dicono la loro anche i fiati: Sax e Tromba non tacciono durante questi scambi!
In molte interviste i Blues Brothers, Jack Blues (John Belushi) e Elwood Blues (Dan Aykroyd), affermano di essersi ispirati a Sam & Dave, cercando di riproporre la stessa grinta del duo Soul. Erano due vere iene da palcoscenico, facevano ballare il pubblico e lo coinvolgevano nei “call-and-response”, dalla pelle del viso e dal collo uscivano litri di sudore, ma nei live tenevano sempre camicia, giacca e cravattino. Mentalità ed un certo stile.
E’ il 1966 e negli studi della Stax, Isaac Hayes e David Porter s’incontrano per scrivere l’ennesimo brano; David ha i crampi alla pancia per un presunto attacco di cagotto e scappa in bagno. Passa mezz’ora e Isaac, preoccupato, va a controllare che David sia ancora in bolla. Gli chiede: “Ehi David, tutto ok?” e lui risponde “HOLD ON…I’M COMING” (Aspetta, sto arrivando!) che diventerà il titolo di un classico della Black Music. Un pezzo che nasce dal cesso, ma vivrà all’infinito nell’etere.
Il brano comincia con una calda robusta linea di fiati che entra di prepotenza a gamba tesa, Sam comincia a cantare, poi arriva Dave per il ritornello, assieme al suono arzillo della tromba e ai sax che fanno da tappeto. Si alternano strofa e ritornello fino ad un crescendo dei botta e risposta di Sam & Dave tra acuti da pelle d’oca ed energia pura da vendere.
Questo brano ha una delle intro che più mi piacciono, perché subentra a muso duro con un sound pastoso, poi iniziano a cantare Sam & Dave e si va diretti sul Monte Bianco, ovviamente ancheggiando. Il testo sostanzialmente parla del mio modo di vivere i rapporti interpersonali. Quando un* amic* è giù di corda, sono la prima a dire: “Tieni duro, sto arrivando!”. Story of my life e deformazione proFESSIonale. Comunque consiglio di vedere qualche esibizione live di questi due bravi ragazzi, per vedere quanto sono carini quando si esibiscono abbozzando delle coreografie.
Personalmente ci sballo con “I Thank You“: giro di basso caldo bollente, pastosissimo e grooveggiante, batteria che va dritta come un treno. Vale la pena ascoltarlo per la sezione ritmica da mantra.
Sarà “Soul Man”, però, a raggiungere un successo stratosferico grazie al film “The Blues Brothers”. I fratelli blues, in una scena, ascoltano “Soothe me” mentre si accostano con la vecchia automobile Dodge della polizia; insomma che nel film di John Landis ritroviamo continui riferimenti ed omaggi a questi due grandi della “musica dell’anima”, colonna sonora dell’orgoglio nero.
Scusate se è poco.
OTIS REDDING
Come quasi tutti i cantanti soul, anche Otis fin da piccolo sale sul pulpito della chiesa battista ed inizia a vocalizzare note con un nonsochè di grinta. Cresce coltivando il sogno di cantare e lo concretizzerà ben presto. Per anni fa gavetta a cottimo alle dipendenze di Little Richard e Johnny Jenkins.
A soli 20 anni firma un contratto con la Stax ed entra per sempre inevitabilmente ed indelebilmente nella storia del Soul. Tra il 1964 e il 1966 raggiunge la fama collezionando successi come “Mr. Pitiful”, “I can’t turn you loose”, “Try a little tenderness” e “Respect” (anche se sarà la cover di Aretha a raggiungere la vetta dell’Olimpo).
Come faccio a spiegarvi chi è Otis e a trasmettervi la sua grandezza?
Con le parole non ne vale la pena perché rischierei di sminuirlo. Guardate il suo live al Monterey Festival, il capostipite dei più grandi Festival della musica, quello che ha dato il via all’Isola di Wight e a Woodstock. Tre giorni di giubilo e visibilio, di libertà, di distacco dalla realtà.
Sabato 17 Giugno del ’67 si esibisce Otis Redding dopo Canned Head, Byrds, Steve Miller Band, Jefferson Airplane e Booker T & the MG’s e tanti altri. Si alternano in maniera serrata: fuori uno, sotto l’altro. Porca vacca, quanto avrei voluto vivere in quegli anni e schiopparmi tutti ‘sti Festival.
Voi mi direte: che c’entra un cantante Soul in un festival di fricchettoni? Ebbene: concedetevi 20 minuti del vostro tempo per ascoltare, ammirare e gioire dinnanzi a cotanto spettacolo.
Il fisico ben messo di Otis é coperto da un completo verdone. Sale sul palco con lunghi passi decisi. Dev’esserci un freddo porcellone, nonostante sia Giugno, perchè quando inizia a parlare (con un timbro seducente che mi fa sciogliere come burro in padella), dalla sua bocca esce la nuvoletta vaporosa.
Parte con “Shake”, una cover di Sam Cooke. Energia pura, groove, timbrica unica, anima. Il pubblico é come se fosse davvero shakerato dopo una centrifuga in lavatrice. Poi “Respect”, che non ha bisogno di presentazioni. Dopo aver dato sfogo ai movimenti tarantolati sul palco, decide di cantare “I’ve been loving you too long”. Quel patatino di Otis intona note con voce calda e soave.
Delizia con la cover di “Satisfaction” e finisce con “Try a little tenderness”, una dedica a tutte le donne presenti. Ecco, qui c’è un crescendo che mi fa tenere i peli sull’attenti. Inizialmente tira fuori tutta la sua delicatezza vellutata, i suoi sussurri Soul, poi si trasforma di nuovo nell’Otis grintoso che saltella sul posto e che tira qualche urletto sporco e carico di passione. Gli suda il collo taurino in maniera incredibile ed è felice come un bimbo nel giorno di Natale.
Ha dato prova del suo talento trasbordante e della sua presenza carismatica. Tutti, bianchi inclusi, si accorgono di lui e diventa il simbolo del Memphis Soul. Mi si sbriciola il cuore come un biscottino se penso che di lì a poco lui non ci sarà più.
Qui sotto il video dell’esibizione stratosferica di Otis.
Provato da questi venti minuti di magia e sudore e da una tournée di un anno in giro per gli USA e l’Europa, Otis decide di concedersi del sano e meritato riposo, affittando una casa galleggiante in California, a Sausalito. Si allontana dal frastuono, dagli amplificatori e dalle casse, per ascoltare solo le voci dei pescatori che attraccano al molo e i versi dei gabbiani. Strimpella la chitarra, scrive qualche parola e compone “Dock of the bay”.
Otis si sente pronto ad evolvere, a liberarsi del sound Stax per sperimentare la sua creatività, mosso dall’esempio originale dell’album “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” e dai Beatles in generale. Torna in studio e fa ascoltare il brano. Non piace a nessuno, ma lui decide di inciderne ugualmente una bozza, quel lontano 8 Dicembre 1967.
Lascia detto ai tecnici di inserire il suono delle onde del mare e dei gabbiani in volo e di aspettarlo al suo rientro dal tour per apportare altre modifiche. Non ce la farà mai.
Il giorno dopo inizia con la prima tappa, ma alla seconda non si esibirà: il 10 Dicembre 1967 precipita, in un lago ghiacciato del Wisconsin, l’aereo sul quale viaggia assieme ai turnisti Bar-Keys (addirittura uno di loro sopravvive, aggrappandosi ad un cuscino in stile Rose-Titanic).
James Brown, un tipo scafato dalla vita, uno che ne ha viste e vissute di cotte e di crude, afferma di avergli sconsigliato di muoversi su un aereo in tournée, in special modo per andare nel Wisconsin dove spesso il meteo fa schifo, tira vento e si schiatta di freddo… un po’ come in Iowa, dove nel 1959 cadde l’aereo con sopra Buddy Holly (gli americani ricordano quel giorno come “the day that music die”).
Tornando a “Dock of the bay”, la Stax è dubbiosa, non sa se pubblicarla o meno, per paura di snaturare il ricordo di Otis. A Gennaio decidono di far uscire il brano “Sittin’ on the dock of the bay” , modificandone il titolo. Come una palla di cannone lanciata in una vetrina, sfonda tutte le classifiche.
Otis ha finalmente la sua Numero Uno e, seduto sulla sua nuvola, brinda al suo successo.
Io amo Otis, davvero. Chissà quante gioie mi avrebbe donato ancora. A 26 anni non si muore (se proprio devi, almeno spegni 27 candeline per entrare nel club esclusivo), specialmente se hai da elargire opere d’arte, se hai ancora tanto da dare a noi comuni mortali, che, grazie ad artisti di simil calibro ci riempiamo le orecchie di meraviglia… E ci emozioniamo.
Be cosa dire musica ed emozioni al massimo, peccato che televisioni e radio non ne hanno conoscenza e non diffondono
Hai ragione Francesco, è davvero un peccato! Ci sono alcuni programmi meravigliosi e documentari, ma purtroppo li trasmettono sempre in seconda serata. Per quanto riguarda le radio…beh… sempre la stessa roba in repeat!